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Giulia

Ultimo Aggiornamento: 26/06/2008 10:12
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26/06/2008 10:08

Giulia camminava sui tacchi sbattendoli con forza sul pavimento. Soprattutto quando correva per il corridoio in ospedale per andare a trovare il nonno Enrico. La gonna grigia con tanti pois bianchi si alzava a tratti e di qualche centimetro. I bordi svolazzavano. Sembrava leggera, Giulia. Senza problemi. Sembrava una farfalla. Senza un fiore su cui posarsi. Le calava di lato una spallina quando portava la camicetta chiara. Oppure un bordo lasciava sempre scoprire un pochino la spalla aguzza. Un chiodo che per miracolo non minacciava di strappare il vestito ad ogni passo.
Quando entrava in camera del nonno tutti si giravano a guardarla. Ѐ che non se ne accorgeva ma gli occhi riflettevano per un attimo la luce che entrava da sotto le imposte tirate solo un poco. Così il nonno e gli altri due ricoverati della stanza non si disturbavano.

-Buonasera a tutti.

Lo diceva così. Senza troppa enfasi ma neanche in modo asettico. Poggiava la borsa bianca sul tavolinetto bianco. L’unico della stanza. La tracolla era un falso firmato che aveva preso al mercato.
Poi si girava sui tacchi di 90 gradi ed univa leggermente le gambe. I polpacci vibravano un poco a quello scatto. Altri due chiodi, questa volta i due seni, seguivano come un’onda gli archi disegnati dalle scarpette nere. Aveva due piccole mammelle che costringevano tutti ancora una volta a tenere gli occhi sul suo corpo. I tre uomini seduti vicino al letto di fronte erano i figli di un altro anziano. Beppe. Ma tutti, compreso suo nonno, non facevano altro che seguire i suoi movimenti fermi ma interessanti. Come tanti burattini mossi dai fili attaccati alle anche di Giulia, così i loro occhi si muovevano intorno alle sue esili depressioni.
Alta sì che era alta. Ma più che l’altezza ti rimanevano impresse quelle lunghe ciocche nere che spesso doveva spostarsi con la mano destra da davanti alla fronte. A volte guardava in giù, come quando parlava con suo nonno. Oppure come quando cercava il rossetto tra la confusione della sua borsetta. Se ne metteva sempre un po’ mentre gli altri non la osservavano. Quando spostava il mento in basso prendeva un’espressione che solo un piccolo animale, di quelli con le orecchie un po’ aguzze ma che ti fanno tanta tenerezza, può assumere. Sarebbe potuta essere un cerbiatto una sera. Mentre la sera dopo ricordava una lince. Ma meno furba. Un’altra sera ancora ricordava più semplicemente un cagnolino smarrito.
A casa entrava sempre di fretta. Rumoreggiava parecchio con quelle doppie chiusure e quelle chiavi per poi spalancare la porta di legno vecchio, verniciata di bianco, sul suo monolocale. Tutti i muri erano coperti con la carta da parati. La stessa che aveva messo il nonno. Buttava la borsa distratta sul divanetto monoposto di lato alla porta e si sedeva subito sulla sedia di fianco al tavolino. A quel punto faceva scricchiolare un poco il collo piegando la testa da un lato. Stava ferma così. Trovava interessante osservare il quadro di fronte che ritraeva una sua foto di quando era piccola mentre giocava al mare. Accanto a lei un uomo. Il suo papà. Quando ancora aveva i baffi. Quando ancora stava con la mamma.
Poi faceva un altro crick sul lato opposto. Questa volta lo sguardo cadeva sulla boccia di vetro su uno dei piani della cucina. I due pesci rossi sembravano dormire da un pezzo.
Una macchinetta del caffè giaceva silenziosa su un fornello. Aperta nel suo lato superiore a regalare ancora qualche immagine di profumo mattutino.
Ma era già sera quando tornava in casa. Passava i pomeriggi in giro. Dopo la mattinata a sbattere le dita sui tasti di un computer di un ufficio lontano da casa, Giulia si fermava al bar di sotto durante la pausa pranzo con due o tre colleghe, sempre le stesse ormai da 10 anni. In genere perdeva un po’ di tempo in centro, appena uscita dal lavoro. Oppure in biblioteca. L’ultimo libro che aveva letto era un testo che parlava di stragi e di amori, di passioni che comunque era cosciente di non aver capito a fondo.
Solo da quando si era ammalato il nonno passava il tardo pomeriggio in ospedale. Al massimo usciva un po’ prima per cercare di comperare qualcosa per sé e per i suoi pescetti.
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26/06/2008 10:08

Un sussulto e un urlo soffocato fecero saltare sul letto il corpo sudaticcio e molle di Giulia. Gli occhi erano spalancati e tremava tutta. La bocca farfugliava qualcosa.

- Meno male che era un sogno.

Si asciugò un poco i capelli smossi dalla troppa agitazione e madidi di sudore per poi fare qualche movimento in aria, come a volere tirare due o tre pugni contro i fantasmi appena andati via. Diede una sbirciatina alle lancette della sveglia sul comodino. Erano già le 5 e da lì a mezz’ora si sarebbe dovuta alzare. Intravedeva al buio poco più avanti il riflesso dei pescetti immobili sopra il piano della cucina. Decise di alzarsi con uno strano movimento facendo perno sul braccio sinistro e ricadendo con un piccolo tonfo con i piedi nudi sul pavimento. Sbadigliò allargando parecchio la bocca e deformandola su un lato. Faceva un rumore grottesco ma che sentiva le giovava il risveglio. Arrancò verso la porticina del bagno. Era un piccolo corridoio con in fondo, proprio sotto la finestra, una lavatrice di quelle vecchie con apertura ad oblò davanti. Lo smalto era spesso increspato e mancavano alcuni pulsanti sul pannello frontale. Sul vetro ad esagoni stava fissa un taglio deformato di luce gialla che veniva di sotto, dalla strada. Forse il lampione di fronte la fermata del pullman.
Per qualche secondo Giulia si era fermata, stanca, con il capo pesante leggermente da un lato. Usava anche aggrottare un poco le labbra serrandole forte mentre si incantava in quelle piccole luci. Poi si stropicciò il naso strofinandolo con un dito, alzò gli occhi e lanciò la testa insieme ai capelli indietro. Vide nello specchio quadrato in mezzo al mobile del bagno sopra il lavandino due occhi stanchi che roteavano all’insù. La faccia incorniciata da una foresta ribelle e scura tra le mani che cercavano di imbrigliare quei rami secchi senza successo. Sbuffò e si grattò via qualche pallina bianca dal pigiama vecchio, proprio sopra i seni.
Nonostante il freddo, con un altro sbuffo, lancio in alto le mani e si tirò via la parte superiore del pigiama che finì dritto sullo stenditoio infilato sotto la doccia. L’acqua scendeva ghiacciata dal rubinetto del lavandino. Allora provò a trattenere il fiato mentre si inondò il viso con quella sveglia liquida che scendeva rumorosa lungo il tubo.
In meno di 15 minuti era già pronta. Accese il gas e attese il caffè sbirciando sul piccolo televisore qualche notizia e facendo una partita veloce con un piccolo gioco portatile. Dopo il caffè si vestì con un jeans scuro ma molto usurato e sopra la camicetta infilò un bel maglione verde che la avvolgeva come un nastro. Le scarpe nere le alzavano ancora di più la statura con quei tacchi quadrati.
La strada era fredda e l’aria ghiacciava mentre le entrava nelle narici fino a bussargli nella testa. Gli sbuffi ora erano diventati nuvole bianche e le labbra si erano indurite. Ci mise circa 40 minuti ad arrivare in ufficio. E neanche altri 10 a ricevere la notizia della morte del nonno.
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26/06/2008 10:08

Il corpo era ancora sdraiato sul letto d’ospedale dove era stato in quegli ultimi mesi. Giulia entrò di fretta, solo ora completamente sveglia. Spaventata? Triste? Non lo sapeva. Quello di cui era certa è che non poteva essere vero quello che la caposala le aveva detto solo qualche minuto prima. Non poteva essere vero. Si ripeteva mentalmente:

- Sarà come l’altra volta. Sarà solo in coma.

Stavolta no.
Ѐ quando tanti di quegli esseri che potremmo considerare alieni si spingono e si riproducono dentro l’addome. All’inizio era uno solo. Nell’intestino. Poi tanti altri. Erano mesi che dicevano che sarebbe stato inevitabile. Ma il decorso del nonno era stato diverso. Era stato lucido fino al giorno precedente. Non aveva avuto perdite di coscienza o estrema debolezza.

Infarto del miocardio.

Erano state tre parole a ucciderlo. La causa era certamente quel cattivo essere nella pancia. Ma per colpa della debolezza il corpo aveva ceduto. A causa delle cure, cattive anche quelle. Il corpo di nonno Enrico aveva ceduto. Non era una notizia sbirciata in tv distrattamente. Neanche una voce di corridoio. Ora si trovava là da sola ad affrontare la morte. Solo un separé dava un po’ di ritegno a quel corpo gonfio e stanco.
Giulia guardò verso l’alto come a cercare l’anima invisibile del nonno. Le avrebbe detto che gli voleva bene. Ma questo lo sapeva già. Poi, d’un tratto, si sentì sollevata. Una risposta era arrivata. Finalmente era libero da tutta quella sofferenza.
Gli passò tre dita su una mano fredda e le sfuggì un sorriso subito spezzato da uno scomposto tremolio del labbro. Una lunga lacrima calda, finalmente. Gli occhi gli si gonfiavano di quella ronzante luce di neon. Tutto nella stanza era un sibilare di anziani che dormivano. Solo quella lucetta accesa dietro un separé.
L’infermiera e due assistenti pregarono Giulia di uscire un attimo. Socchiusero la porta azzurra incorniciata nel metallo e lei rimase lì. Un ragazzo passò vicino a lei preceduto solo dallo strascicare dei suoi zoccoli bianchi da infermiere. Anche lui le aveva lanciato uno sguardo curioso. Timido. Forse a causa dell’ora.
Giulia incrociò le braccia. Voleva pensare a qualcosa. Ma ogni cosa che pensasse la riportava sulla figura del nonno. Si ricordò di quel giorno, da bambina, che la teneva sulle gambe robuste e le raccontava che ogni volta che si sarebbe sentita sola bastava pensare a lui.

- Ricordati che se anche non ci vedessimo basta che mi pensi e io sarò con te! Anche quando mi sento solo io penso a te e mi passa tutto.

La porta si aprì col nonno Enrico sopra la barella ricoperto da un lenzuolo bianco. Giulia allungò un braccio muovendolo lentamente verso di lui quasi a protestare che l’avessero coperto. Pensò:

- Non respira così…

Poi ebbe un brutto movimento che la costrinse contro il muro e si strascicò un poco sulla schiena prima di riprendersi facendosi forza sulle ginocchia. Una mano le sostenne il polso. Era il ragazzo di prima. L’infermiere. Le disse di respirare a fondo e di non pensare a nulla. Poi corse via per ritornare quasi subito dopo con una sedia a rotelle. La fece sedere lì e la portò sul balcone. Solo quando si riprese completamente le chiese se voleva scendere nella camera.

La giornata passò in parte così. Nessuno venne a trovare il nonno. Tra l’altro non c’era nessuno che sarebbe stato interessato a farlo. A parte Giulia. Lei rimase lì ad osservarlo per ore. La fecero uscire più volte e la invitarono a rivolgersi ad una ditta per espletare le funzioni del caso. Ma lei trovava mille scuse. E rientrava a sedersi in quell’ambiente fresco e piccolo ad osservare il suo nonnino indifeso e bianco come un giocattolo rotto e dimenticato.

- Ti sto pensando nonno.

Gli prendeva ora la mano. Poi la lasciava e questa ricadeva senza resistenza sul metallo dov’era steso il corpo.
Si spalancò la porta a due ante. Entrò un signore vestito con un maglione aperto a V di colore rosso ed un pantalone chiaro. Portava un paio di occhiali e mentre con la sinistra spinse con un dito al centro delle lenti per farle rialzare sul naso, con la destra strinse la mano di Giulia. Dopo avergli parlato un poco del nonno gli ricordò che era uno di quei signori, uno dei figli di Beppe, uno dei nonnini che si trovavano nella stanza con nonno Enrico.
Mi chiamo Alberto.
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26/06/2008 10:09

Alberto mosse un poco i polsini del maglione verso l’alto per scoprire meglio la camicia bianca sottostante. Torturò un altro poco l’asticella degli occhiali e per aggiustarsi meglio la visuale fece un movimento con la parte superiore dell’indice sinistro, a premere contro il ponte, per far salire le lenti meglio sul naso. Poi continuò, dopo aver fatto le condoglianze di rito:

- Capisco che vuole rimanere da sola… Con suo nonno, intendo… Ma ci sono delle procedure da sbrigare. Se permette me ne occupo io.

Si strofinò in modo impacciato la mano destra per tutta la lunghezza del palmo sulla base del maglione.

- Contatto la ditta e tutto il resto e poi le faccio sapere.

Uscì quasi facendo una reverenza, come quando si esce da una Chiesa, girandosi solo all’ultimo per infilare la porta. Giulia durante il tempo che aveva parlato non era riuscita a dargli neanche la mano. Da una parte voleva farsi vedere un pochino serena. Voleva che il nonno, sicura che la vedesse, non la trovasse così abbattuta. Ma non ci riusciva neanche un poco. Non riusciva a esprimere le forze adatte ad attivare le corde vocali o ad alzare gli angoli esterni della bocca. Tuttavia sentiva la gola secca e si decise ad andare nell’androne dell’ospedale, al piano superiore, per prendersi qualcosa. Fece un po’ di vortici con la mano infilata dentro la borsetta per far spuntare un porta monete rosa con un’apertura frontale e piccola. Tremando fece scattare il pulsante che sembrava pesare tantissimo. Scivolò fuori un euro e lo infilò nella fessura. Mentre selezionava una bottiglietta d’acqua naturale pensò che non aveva neanche ringraziato quel signore. Prese la bottiglia e cercò due volte di aprirla. Sentì il liquido fresco scendere ad inumidirle la gola. Le venne in mente un immagine di quando era al mare e stava seduta osservando l’orizzonte. L’acqua sembrava la cosa più bella del mondo anche in quell’occasione di caldo e sudore. Socchiuse un momento gli occhi e chinò un poco la testa verso destra in modo quasi impercettibile. Poi riguardò la borsa aperta. La richiuse rapidamente e decise di scendere di nuovo giù.

- Signora, il resto.

Si girò di scatto e rivide il viso di quell’infermiere che l’aveva soccorsa qualche ora prima. Si accorse anche, di colpo, come si fosse svegliata da un incanto, che la sala ristoro era piena di gente. Prese le due monete tra le due dita e si allontanò. Si sedette poco più là. Si chiese come mai il Sole continuasse a splendere così forte in una giornata senza il nonno. Scorse sulla destra due bambini che erano appena entrati nell’androne. Avevano due pigiami colorati e allegri. Una signora dietro strascicava su un paio di sandali da ospedale, bucherellati sulla parte superiore e di colore arancione. Il verde della sua divisa non sminuiva il pancione che si muoveva un po’ da un lato e un po’ dall’altro mentre avanzava inesorabile verso la macchinetta del caffè. Fece un cenno di saluto verso l’infermiere di prima che si allontanò di fretta. Poi richiamò quei due bambini che si erano fissati a torturare un cestino.

- Che ora si va a fare le analisi, lasciate quella roba.

I bambini erano così spensierati. Quante volte avrebbe voluto tornare bambina Giulia. Quante volte avrebbe voluto risentire le braccia calde e sicure del papà. Come avrebbe voluto sentirlo adesso. Ma erano mesi che non si parlavano. Avrebbe dovuto trovare il coraggio di chiamarlo. Erano già passate alcune ore. Doveva proprio. Si fece forza ed estrasse con forza un piccolo cellulare rosa pallido dalla borsa. Più volte provò a farlo accendere ma sembrava essere diventato un oggetto cattivo e noioso tutto d’un tratto. Alla fine apparse un chiarore sullo schermo principale. Una volta attivo cercò sulla rubrica e cliccò su papà. Fece squillare un poco. Ma dopo tre squilli la chiamata fu troncata. Decise di scrivere un messaggio:

- Lo so che non mi vuoi parlare. Ma sappi che nonno Enrico è mancato. Volevo informarti solo di questo.

Poi aspettò una risposta che non arrivava. Spense il cellulare e lo infilò di nuovo in quella borsa. Tre persone entrarono nell’androne seguite da un’altra decina. Il gruppo si sparpagliò velocemente. Di quelle tre riconobbe due parenti di alcuni ospiti dell’ospedale. Poi un uomo dal gruppo si staccò e si avvicinò a lei.

- Perché non si dà una bella rinfrescata? Per sentirsi meglio… Comunque ho chiamato alla ditta ed è tutto apposto. Se ne occupano di tutto loro. Vuole qualcosa da mangiare? C’è il bar proprio qui dietro, perché non viene?

Era di nuovo Alberto. Decise stancamente di alzarsi e seguirlo. La stanza del bar era già piena di gente. Ognuno urlava qualcosa al barista. Altri già pagavano i primi scontrini.

- Allora cosa prende?

Si decise:

- Un latte.

Alberto si alzò di scatto, si riaggiustò gli occhiali con un dito annuendo un poco verso Giulia e si avvicinò verso il bancone. Giulia rimase silenziosa ad osservare la strana forma quadrata del tavolino grigio. Questa volta senza pensare. Per un attimo, persino, si era dimenticata perché era lì.
Alberto tornò e posò il tutto sul tavolo. Per lui aveva preso un caffè e un croissant mentre per Giulia il latte con un altro croissant, anche se non richiesto.

- Io la ringrazio di tutto. Lei è molto gentile.

Esordì Giulia.

- Ma perché non mi dà del tu? Insomma, sono più grande di lei…te, ma chiamami pure Alberto.

Giulia gli diede la mano destra e poi si mise a piangere un poco.

- Mi scusi, mi scusi.

Alberto le pose subito un fazzoletto chiaro e ben piegato. Lo aprì e si permise di asciugarle in parte una lacrima su una guancia che cadde proprio sul piattino dov’era posato il bicchiere del latte. Giulia abbassò subito lo sguardo e si coprì un pochino il viso con una mano. Poi spostò nervosamente per tre volte il ciuffo ribelle che nascondeva ottuso la fronte. L’uomo la fissava intensamente poi le sue guance si arrossarono un poco. Distolse lo sguardo verso un frigo di gelati posto poco più in là sulla destra. Uno schiamazzo proveniente dalla gente in sala li fece sobbalzare un poco entrambi. Spinse gli occhiali con l’indice verso il naso e poi sparò, tutto di un fiato:

- Sei molto bella.

Giulia non rispose. E non pensò a nulla. Prese il latte e lo fece scendere tutto di un fiato sopra la lingua e poi giù a scomparire nella gola. Lasciò il bicchiere sul piattino con un alone dove aveva poggiato le labbra. Poi si alzò abbastanza velocemente.

- Non doveva disturbarsi, riesco anche da me.

Alberto la fermò.

- Ti chiedo scusa se ho detto quella frase. Mi è venuta così. Ma lascia che ti aiuti in questo momento.

Giulia annuì guardando verso la porta e poi si affrettò verso l’uscita per tornare dal nonno
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26/06/2008 10:09

Erano passati tre giorni. Nonostante le giornate ultimamente fossero calde la notte aveva portato umidità. Giulia si era messa un golfino azzurro sopra le spalle e sotto l’impermeabile scuro mentre quattro uomini facevano scorrere la cassa fin dentro il mezzo. Solo lei e il suo nuovo amico, Alberto, al corteo dopo una messa veloce. Le era rimasta in testa la frase del prete durante l’omelia: ogni volta che abbiamo fiducia e siamo tranquilli Dio ci dona una difficoltà nuova per scuoterci e farci capire che la Salvezza non è di questo mondo.

- Dio che ci fa un favore facendoci soffrire?

Aveva pensato Giulia. Si era irrigidita subito dopo sulle braccia tese mentre Alberto le aveva passato una mano sui guanti in pelle scura. Non se ne era quasi accorta. Non riusciva a respingere completamente quelle avances. In fondo era stato così gentile con lei.
Il resto della cerimonia fu un risolversi in fretta e furia. La pioggia aveva preso a cadere e si sentivano folate di vento gelide arrivare dall’entrata della Chiesa. Il prete fu il primo a scomparire in sacrestia. Alberto porse un braccio a Giulia e la sosteneva mentre si avvicinavano all’uscita. La bara fu ricaricata in fretta sul mezzo. Alberto aprì la portiera della sua punto grigia e salì in fretta dal lato guida. Arrivarono al cimitero e poche parole di commiato precedettero il posizionamento nel loculo.

- Ti va di venire a mangiare qualcosa con me?

Aveva detto di botto Alberto. Giulia annuì silenziosa com’era solita fare. La portò in un piccolo locale del centro. Era posizionato da un lato di un grande corso e la gente sgattaiolava con fretta per cercare di evitare di bagnarsi. Gli schizzi investivano i due mentre si apprestavano ad entrare nel ristorante.
La sala era piccola ed aveva un grande soppalco, in quel momento senza nessuno. Al piano inferiore c’era una tavolino per due vicino ad un angolo. Sul lato del muro, dove si sedette Giulia, il sedile era costituito da una poltroncina. Alberto si sedette sul lato opposto, di fronte a lei, sulla sedia. Tutto intorno parecchi tavoli. La maggior parte occupati da coppie. Si sentiva solo un leggero mormorio e una sottile musica di soffondo. Forse New Age.
Lei si tolse l’impermeabile. Ebbe un tremito lungo le braccia coperte solo dalla camicetta bianca. Si aggiustò meglio il golfino sulle spalle. Lui, invece, portava un bel completo. Giulia lo guardò un attimo. Poi buttò un colpo di tosse. Gli porsero il menu. Scelsero distrattamente il piatto del giorno a base di zuppa di pesce. Qualcosa di caldo. Un vino bianco leggermente frizzante.

- Giulia lo so che ci conosciamo poco... Giulia mi ascolti?

Alberto cercava la sua attenzione. Le spiava tra il decolté il seno aspro ma fonte di desiderio per lui.

- Ogni volta che venivi in ospedale io non facevo altro che… non potevo fare altro che guardare perché sei così bella. Vorrei tanto conoscerti meglio.

Si fece intraprendente e gli passò la mano quella di lei ancora guantata. Poi si aggiustò un poco gli occhiali con un dito sul ponte e la guardò fisso. Ma fu costretto a riabbassare lo sguardo. Giulia era triste e stanca. E fissava imperterrita, con le labbra contratte, la candelina bassa nel bicchiere vicino la bottiglia pieno di liquido rosso. Non rispondeva.
Fece uno scatto improvviso e sollevò il capo verso l’alto. Riabbassò subito gli occhi su di lui e gli prese la mano. Gliela strinse un poco e gli fece un sorriso con un angolo della bocca. Gli occhi sembravano scintillare un poco. Poi ebbe un altro colpo di tosse.

- Non sai nulla di me. Sono una persona diversa da quella che credi. Tu lavori e gestisci la ditta che era di tuo padre. Io sono una semplice impiegata. Non esco molto e…

Ma lui le strinse la mano.

- Non m’importa.

Lo disse quasi tremando tanto che Giulia ebbe un piccolo scoppiettio di risa. Poi si vergognò un poco. E perché era in un luogo affollato e silenzioso e perché era di ritorno da un funerale. Di suo nonno tra l’altro.
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