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10 febbraio: ricordiamoci delle foibe e del male comunista

Ultimo Aggiornamento: 10/02/2010 10:00
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10/02/2010 09:58

Parlato: foibe,
un oblio che grida vergogna


di Leonardo Varasano


Dal 2004, la Repubblica italiana riconosce il 10 febbraio quale Giorno del ricordo per conservare e rinnovare la memoria di tutte le vittime delle foibe e dell’esodo degli italiani di Istria, Fiume e Dalmazia. Da allora, ogni anno, si rievoca una pagina di storia nazionale particolarmente drammatica, a lungo permeata da un silenzio doloroso ed apparentemente incomprensibile. Al di là della celebrazione istituzionalizzata, il dibattito storico-politico sulla complessa vicenda del confine orientale resta aperto. Le foibe, come conferma Giuseppe Parlato - professore ordinario di storia contemporanea, rettore della libera università S. Pio V, presidente della fondazione Ugo Spirito, recentemente insignito del premio internazionale del Giorno del ricordo per la storia - «sono ancora un tema di discussione e di grande interesse».

Perché ci sono voluti tanti anni e tante polemiche per fare entrare il tema delle foibe nel discorso pubblico del nostro paese? A chi appartiene la responsabilità di un così lungo silenzio?
Le cause del lungo silenzio sono diverse e articolate, riconducibili a più livelli. Si tratta sostanzialmente di motivi di carattere storico che riguardano la “gestione” del problema del confine orientale nel dopoguerra. In Italia, il Pci sosteneva le ragioni di Tito e non voleva sollevare il problema delle foibe, tanto che chi dissentiva da questa linea veniva messo a tacere. I comunisti mantennero questo atteggiamento anche dopo il marzo 1948, dopo l’allontanamento della Jugoslavia dalle posizioni dell’Urss. Gli italiani che abbandonavano l’Istria e la Dalmazia erano considerati fascisti, o comunque “reazionari”, poiché non capivano la bontà del sistema collettivistico jugoslavo. La DC avrebbe dovuto essere più vicina al mondo degli esuli. E, in effetti, ne ha favorito il reinserimento. Ma ha aiutato gli esuli purché non se ne parlasse. Preferì il silenzio perché su De Gasperi pendeva il mancato referendum dell’Istria in merito all’autodeterminazione dei popoli che abitavano quella regione. Dietro a questo comportamento c’era un fondato timore politico: quello di un analogo referendum in Alto Adige. C’era dunque un sostanziale e diffuso interesse al silenzio. I partiti moderati di centro (liberali e azionisti), temevano dal canto loro il riaffiorare del nazionalismo.
Ma al di là delle vicende interne, è stato il contesto internazionale a favorire l’oblio. Se prima del marzo 1948 non parlare delle foibe era nell’interesse dei comunisti, dopo l’allontanamento delle Jugoslavia dal Cominform sono gli alleati a preferire il silenzio: Tito diviene un loro “amico”. Morto il dittatore e frantumata la Jugoslavia, permangono le stesse ragioni. Sostenute da Vaticano, Stati Uniti e Germania, negli anni Novanta Slovenia e Croazia continuano ad avere interesse a che non si parli delle foibe.

Nei mesi scorsi si è parlato - lo hanno fatto a più riprese il Manifesto e il Corriere della Sera - di un secondo “armadio della vergogna”, riguardante i crimini italiani durante l’occupazione nazifascista della ex Jugoslavia. In quest’ottica, le foibe possono essere interpretate come una reazione al giogo degli occupanti?
Quelle informazioni hanno bisogno di riscontri. Certo è che le notizie di cui disponiamo sui campi di concentramento allestiti dagli occupanti in Slovenia danno l’idea di una situazione molto pesante, tipica degli internamenti nelle zone di guerra. Detto questo, però, permangono tre problemi. In primo luogo, gli infoibamenti avvengono (per buona parte) a guerra conclusa, mentre i campi appartengono alla guerra. Il discorso cambia: se di “reazione” si tratta, avviene in tempo di pace. In secondo luogo, è una “reazione” decuplicata, sproporzionata. In ultimo, ma non meno importante, i motivi di dissidio tra italiani e slavi non sono originati dai campi di concentramento, risalgono alla fine dell’Ottocento. Nell’Adriatico orientale, la comunità italiana inizia ad insediarsi con i veneziani. Gli italiani che vivono in quelle zone vengono assoggettati all’Austria e non sentono la necessità di far parte dell’Italia. I rapporti con la patria d’origine sono flebili politicamente ma assai forti culturalmente: non è un caso che il primo dizionario dei sinonimi e contrari italiano sia opera di un dalmata, Niccolò Tommaseo. Dalla seconda metà dell’Ottocento la situazione cambia. Nelle zone abitate da italiani cresce la componente slava, incentivata dall’Austria-Ungheria. All’inizio del Novecento iniziano i veri contrasti. Gli italiani, già classe dirigente, vedono il loro ruolo sociale messo in discussione dalla componente slava. Persa la leadership, nell’elemento italiano sorge l’irredentismo. Poi c’è la Grande guerra e la vittoria italiana. Gli italiani divengono maggioranza, mentre gli slavi non hanno più il sostegno austriaco. Inizia un forte processo di italianizzazione che però non raggiunge gli effetti sperati neppure durante il fascismo. Prima della Seconda guerra mondiale, l’odio slavo nei confronti degli italiani si trasforma in terrorismo. Il gruppo più importante è il Tigr (Trieste, Istria, Gorizia e Rijeka). Ma il terrorismo slavo non si manifesta a partire dall’occupazione italiana della Slovenia: era cominciato già prima della guerra del 1915 e si era espresso contro gli italiani in maniera pesante e feroce. Le ragioni che portano alle foibe sono molteplici: parafrasando Pavone, possiamo dire che si sono sovrapposte da parte slava una guerra di liberazione contro nazisti e fascisti; una guerra “etnica” contro gli italiani (in quanto “etnia dirigente”); una guerra sociale e di classe; una guerra religiosa (rivolta non solo contro gli italiani). Il tutto porta ad una stima di circa 10.000 infoibati e di 350.000 esuli.
Alle diverse guerre che si combattono sul fronte orientale c’è da aggiungere quella civile, fra italiani. Scrivendo del noto e drammatico episodio di Porzus (l’esecuzione di alcuni componenti della brigata Osoppo da parte di alcuni partigiani della brigata Garibaldi), Pier Paolo Pasolini ha affermato che «i compagni comunisti farebbero bene ad accettare la responsabilità (…) per cancellare quella macchia rossa di sangue che è ben visibile sul rosso della loro bandiera»…
Sì, in effetti Porzus è l’espressione di un’altra guerra, una guerra geopolitica. Porzus era un avamposto badogliano e monarchico che intendeva difendere il territorio italiano. Quello che accade lì è il tentativo di eliminare sacche di antifascismo non comunista. La storia conferma che Togliatti diede l’ordine di procedere su Porzus.

Le foibe sono state anche il tema di una fortunata fiction, Il cuore nel pozzo. Quanto servono simili iniziative? Quanto contribuiscono a colmare una lacuna storico-politica?
L’esperienza della fiction è stata molto positiva. Perché o la vicenda delle foibe si “delocalizzava” o rimaneva legata a chi l’aveva vissuta. La fiction, pur con i suoi limiti, ha posto il problema all’informazione pubblica, ha dato notorietà al tema. Dopo lo sceneggiato televisivo ho sentito parlare delle foibe perfino in metro a Roma: non mi era mai capitato. Ma, anche la Giornata del ricordo, l’intitolazione di vie e piazze, l’erezione di monumenti sono novità significative. È necessario che tutte le forze politiche convergano per ricomporre una pagina strappata della storia nazionale.

Recentemente il sindaco di Roma Alemanno ha dichiarato che la Croazia dovrebbe rimanere fuori dall’Ue finché non riconosce il dramma delle foibe. Claudio Magris ha ribattuto che «non è giusto scusarsi per le colpe dei padri». Che ne pensa?
Non credo che si debba arrivare fino a quello. D’altra parte, ciò che conta non è tanto l’ammissione di colpa, che può essere un buono spot pubblicitario per chi la dovrebbe fare (in questo caso per i croati e gli sloveni), ma il fatto di impostare in termini duraturi e seri un percorso di verità. È quello che ha detto il sindaco Alemanno nell’annunciare il prossimo viaggio di diverse scolaresche romane a Trieste, in Istria, a Fiume. Per far questo ci vuole un reale sviluppo degli studi e delle ricerche storiche. È significativa, ad esempio, la collaborazione in corso tra la Società di studi fiumani e il governo croato per ricostruire e continuare a scavare nel passato. Più complesso, invece, il rapporto con il governo sloveno. Ma la strada è lo studio, la ricerca della verità attraverso la storia. L’annullamento delle visioni unilaterali non serve. Serve il confronto scientifico.

8 febbraio 2009
[Modificato da misterx78 10/02/2010 10:00]
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