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Il libro nero sui comunisti

Ultimo Aggiornamento: 20/09/2009 00:03
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20/09/2009 00:03

IL LIBRO NERO SUI COMUNISTI


Descrizione: Minimo storico ha deciso di affrontare periodicamente la discussione collettiva su un testo di particolare importanza. L'importanza può essere determinata da diversi fattori: la rilevanza scientifica, il rilievo del tema scelto, la ripercussione sui media, o una sintesi delle varie motivazioni.
La discussione collettiva su Il libro nero del comunismo ha visto emergere una duplice modalità di lettura del testo. Una tendente a valutare il lavoro di ricerca storica che è alla base delle ricerche, l'altra a discutere il progetto editoriale e culturale che ne sta alla base, e che ha suscitato un intenso dibattito sugli organi di informazione. Per quanto riguarda il primo livello della discussione, le valutazioni sono state piuttosto concordi. Riconosciuta la dignità storiografica del lavoro di Werth, vero libro nel libro (oltre 200 pagine) e sintesi informata delle <>, hanno lasciato molto più perplessi gli altri scritti e soprattutto il quadro d'insieme con cui le ricerche sono state presentate. L'introduzione e la postfazione, nonché molti dei saggi, operano una semplificazione della storia, una decontestualizzazione dei fatti e una uniformizzazione dei fenomeni che non solo sono poco utili alla comprensione degli stessi, ma inducono a generalizzazioni assai poco consone al dovere di distinzione e di spiegazione che deve avere lo storico. In particolare, è stato evidenziato come Il libro nero del comunismo si pone in realtà come una ambiziosa storia del comunismo, riassunto nell'unica categoria indistinta di crimine. La molteplicità di esempi e di studi locali addotti vale allora come semplice elencazione e disseminazione geografica del fenomeno, ma non comporta nessuna specificazione dello stesso. Il termine crimine è stato sottoposto a discussione: soprattutto è stata discussa la sua possibilità di essere usato come categoria storiografica. E' emerso che, posta la necessità e l'utilità di utilizzarlo per alcuni fenomeni particolarmente efferati (il gulag, lo sterminio dei kulaki, gli stermini in Ucraina), l'uso del termine crimine nel libro appiattisce e unifica fenomeni diversi allorché, ad esempio, la guerra civile seguita alla rivoluzione viene inquadrata nella stessa categoria del gulag, discussa come crimine, allorché vengono poste come crimine le carestie senza differenziarne la genesi e il contesto storico (una cosa è la carestia seguita all'ininterrotto periodo bellico 1914-1921, una cosa la carestia dei primi anni trenta seguita alla collettivizzazione forzata delle campagne). Soprattutto, comunque, il volume è sembrato un lavoro regressivo dal punto di vista delle acquisizioni storiografiche, in quanto ignora tutta la storiografia sui campi di concentramento sovietici e si pone come novità. laddove la novità sta soprattutto nell'operazione di macabra contabilità. E' inoltre stato messo in rilievo come la base documentaria utilizzata dalla maggior parte dei contributi sia assolutamente insufficiente per un serio lavoro di ricerca, mentre qualche saggio è addirittura privo di documentazione. Il discorso è dunque passato sul tipo di operazione culturale ed editoriale posta in opera dagli autori. L'operazione di Courtois (che due degli autori, Werth e Margolin, non hanno accettato) ha portato ad una semplificazione storiografica utilizzabile sia a fini politici sia a fini editoriali. E stato notato come il libro abbia avuto ampia diffusione in Francia e Italia, paesi la cui storia recente è stata caratterizzata dalla presenza di forti partiti comunisti. Sono emerse delle linee differenti di giudizio sul carattere dell'operazione editoriale. Secondo alcuni, nonostante la scarsa rilevanza storica di molti saggi e dell'introduzione, il libro ha comunque una validità data dall'essere soprattutto un'opera di divulgazione. Il libro cioè sfonda un muro di omertà che in Francia come in Italia ha impedito a lungo di considerare la natura criminale del comunismo e ha impedito la diffusione di notizie sulle reali atrocità commesse dai regimi comunisti. Si è evidenziato anche come negli stessi testi scolastici e nella vulgata storiografica certe informazioni e certe nozioni sono sempre state ignorate. Altri negano invece ogni valore divulgativo al volume, considerandolo invece, oltre che un'operazione commerciale scaltra e furba, anche un'operazione di uso strumentale della storia che, oltre ad essere orientata politicamente, è diseducativa dal punto di vista della stessa divulgazione. Omette infatti la necessità della contestualizzazione (che non è giustificazione ma comprensione) e della distinzione. Compito di uno storico, e su questo punto si è avuta una unità di opinioni, è quella di indirizzare ad una lettura più corretta del volume. Il gruppo di Minimo storico ha così deciso di contribuire al dibattito offrendo una lettura più meditata del testo, passando in rassegna le basi documentarie del Libro nero, offrendo approfondimenti storiografici basati su testi già noti in occidente da leggere prima o insieme al Libro nero, suggerendo tracce per ulteriori ricerche. La constatazione di una scarsa cultura storiografica esistente anche nel lettore medio più informato ha portato a valutazioni sulle difficoltà della divulgazione storica in Italia, sul fatto che essa finisce con l'essere fatta solo a suon di scoop e di "revisionismi" culturalmente poco dignitosi e puliti, sul fatto che effettivamente libri e materiali che pur contenevano le informazioni date dal Libro nero, benché esistenti, sono in realtà state lette solo da specialisti. Il gruppo ha concordato che la discussione sul libro, a parte la scarsa validità storiografica dell'oggetto, è stata utile in quanto persone con differente specializzazione e con differenti interessi e oggetti di ricerca hanno potuto confrontarsi su un tema che pone in gioco la questione dell'uso pubblico del lavoro degli storici.

crimini commessi dai comunisti in Italia in questi ultimi cinquant'anni hanno avuto una motivazione ideologica coerente, per quanto perversa.

Abbiamo deciso di ricordarli in queste pagine anche perchè da un po' di tempo la stampa di regime (tanto per intenderci quella sopravvissuta alla prima repubblica) ha iniziato un'operazione di "riabilitazione" dei terroristi di sinistra.

È un'operazione gravissima, da contrastare con ogni mezzo. Si tratta dei soliti intellettuali radical-chic vetero sessantottini che, responsabili di aver aiutato i terroristi all'inizio della loro attività, cercano ora di farli "perdonare" dall'opinione pubblica e dalla giustizia penale per poterli ancora utilizzare ai loro fini.

Nella tabella che segue riassumiamo, a futura memoria, il numero dei crimini che insanguinarono l'Italia tra il 1970 e il 1983 in nome della dittatura del proletariato.


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Ma il fenomeno va esaminato più a fondo e sin dall'inizio, raccontando nei dettagli ogni odiosa storia che costò la vita a tanti innocenti colpevoli solo di opporsi all'ideologia comunista.

I momenti cruciali di questa storia di sangue sono stati due. Quello a noi più vicino, già menzionato, del terrorismo degli anni '70, e quello più lontano nel tempo degli anni 1945-1949, quando i partigiani comunisti, reduci dalla vittoriosa lotta di liberazione, non riuscirono a imporre in Italia il regime comunista, ritennero tradito lo spirito della resistenza e sfogarono la loro delusione con atti violenti.

Non si creda che questi due momenti bui siano isolati tra loro. Come documenteremo con le dichiarazioni stesse dei protagonisti, il sorgere del nuovo terrorismo negli anni '70 fu abbondantemente incoraggiato e sostenuto da frange estreme del movimento partigiano che non aveva mai accettato la sconfitta politica succeduta alla vittoria militare.

Iniziamo dunque ad aprire un velo su questa storia di sangue parlando delle Foibe, le fenditure delle montagne nelle quali i partigiani comunisti titini precipitarono a guerra finita migliaia e migliaia di uomini e donne colpevoli solo di essere italiani.
Sempre a guerra finita l'odio comunista si scatenò contro altre migliaia di innocenti in quello che fu definito il Triangolo della Morte, una vasta zona compresa tra Bologna, Modena e Reggio Emilia.
A Milano operò dall'estate 1945 al febbraio 1949 la cosiddettaVolante Rossa, ovverosia un gruppo terroristico che commise reati di ogni sorta.
Nel 1968 scoppiò la contestazione studentesca. Chi visse quegli anni sa quanti atti violenti commisero i componenti dei vari servizi d'ordine del Movimento Studentesco, di Lotta Continua, di Avanguardia Operaia, dell'Unione dei Comunisti Italiani (marxisti-leninisti) - Servire il Popolo ecc. ecc. Ricordiamo in queste pagine le crudeli aggressioni con le chiavi inglesi e gli assassinii commessi in nome di quella tragica esaltazione collettiva.
Uno dei primi veri gruppi terroristici clandestini all'inizio degli anni '70 furono i G.A.P. di Giangiacomo Feltrinelli, che si rifacevano nel nome e nell'attività ai Gruppi di Azione Partigiana degli anni 1943 - 1945.
Il gruppo terroristico senz'altro più famoso e organizzato di questo secondo dopoguerra è stato quello delle Brigate Rosse. Alle tante vittime di questa formazione terroristica dedichiamo una pagina del nostro Osservatorio, senza alcun sentimento di comprensione o di indulgenza verso i vari Curcio, Franceschini, Moretti ecc.
La sigla che, dopo le Brigate Rosse, ha seminato più morti e terrore è stata Prima Linea, quella del figlio dell'ex ministro democristiano Carlo Donat Cattin e di tanti altri assassini quali Sergio Segio, Roberto Rosso ecc.

recensione pubblicata per l'edizione del 1998)

Un libro che esce in traduzione dopo che la versione originale è stata accompagnata da polemiche continue e accese rischia di appiattirsi su quelle polemiche. "Il libro nero del comunismo "è stato molto dibattuto ma poco letto. E ciò, probabilmente, ha permesso quel successo di pubblico che Mondadori spera di ripetere, grazie anche al prezzo politico con cui lo lancia sul mercato italiano.
La discussione, in effetti, si è concentrata sul titolo del libro, sulla fascetta che ne ha accompagnato la distribuzione, sull'introduzione del curatore dell'opera, Stéphane Courtois. Il fuoco della polemica è stato costituito dal "numero" delle vittime del comunismo e dal confronto di queste con quelle del nazismo, per riproporre una comparazione tra i due grandi totalitarismi di questo secolo.
Nei saggi che compongono il volume, in effetti, si parla molto di numeri. Essendo dedicati alla ricostruzione dei "crimini, terrore e repressione" che hanno accompagnato la storia dei partiti comunisti, come recita il sottotitolo, è evidente che il tema della quantità delle vittime non poteva che essere al centro della riflessione. Nei saggi, tuttavia, questo problema è parte di una più ampia analisi dei meccanismi istituzionali e ideologici su cui il potere comunista ha fondato la propria politica repressiva.
I contributi dell'opera sono fortemente diseguali, sia come spazio e complessità storiografica che come coerenza interpretativa e ricchezza documentaria. Il più importante, tra tutti, e anche il più bello, è quello di Nicolas Werth sull'Unione Sovietica. Al cui fianco porrei, per la profondità dei giudizi e l'uso articolato delle fonti, quello sulla Polonia di Andrzej Paczkowski. Di grande novità e spessore è anche il saggio di Jean-Louis Margolin sul comunismo asiatico (Cina, Vietnam, Laos e Cambogia), anche se l'ottica "repressiva" è qui probabilmente troppo unilaterale e non sempre capace di collegarsi a un disegno storico più complessivo della storia del comunismo in quei paesi. Del tutto insoddisfacente è l'ultima parte del libro, dedicata al "terzo mondo", sia per l'approssimazione della ricostruzione fattuale che per il modello interpretativo e metodologico che la sottende. Da dimenticare, infine, le cento pagine della seconda parte dedicate al Comintern, assolutamente inadeguate, tanto come documentazione quanto sul piano delle ipotesi interpretative, rispetto alla letteratura esistente (e non giova certo al confronto la contemporanea pubblicazione in Francia dell'ultima fatica di Pierre Broué, dedicata proprio alla Terza Internazionale).
L'interrogativo da cui muove Werth per analizzare il terrore e la repressione dell'epoca bolscevica e di quella staliniana riguarda il ruolo del "crimine" nel sistema comunista. La dettagliata ricostruzione dell'attività poliziesca e ideologica finalizzata alla distruzione di coloro che erano individuati come nemici del regime evidenzia così gli elementi di continuità nella pratica repressiva e le diverse fasi in cui essa manifestò differenze qualitative oltre che, ovviamente, quantitative. Lungi dal proporre sconvolgenti rivelazioni sull'uso della violenza di stato nella storia dell'Urss, benché adoperi con intelligenza gli studi recenti basati sulla nuova documentazione archivistica adesso disponibile, Werth propone uno schema interpretativo basato sulla giustapposizione e diversificazione dei cicli repressivi: il primo, che si dispiega tra il 1917 e il 1922 e abbraccia al suo interno l'intera guerra civile; il secondo, caratterizzato dall'offensiva contro i contadini nel contesto della battaglia interna ai vertici del partito; poi il Grande Terrore del 1936-38, seguito dalla repressione del tempo di guerra (1940-45) e infine gli ultimi anni del dominio staliniano, fino alla morte del dittatore.
Del primo ciclo Werth sottolinea il carattere largamente spontaneo della violenza diffusa, strumentalizzata dal potere bolscevico per rafforzarsi e approntare le istituzioni repressive del regime, ma anche l'inizio di quella "deliberata offensiva" contro i contadini che nei decenni seguenti costituirà il cuore dell'intera politica di violenza statale. È solo nel secondo ciclo, tuttavia, che si giunge a quel processo di istituzionalizzazione del terrore come forma di governo che segnerà in modo indelebile lo stalinismo; mentre la "novità" del Grande Terrore sarà quella di concentrare in pochi mesi l'85 per cento delle condanne a morte pronunciate dai tribunali speciali dell'epoca staliniana, ricorrendo a una repressione casuale finalizzata a soddisfare, in modo barbaro e cieco, la pianificazione delle vittime stabilite dal centro. Gli anni di guerra videro invece l'ingresso massiccio, nella spirale del terrore, di gruppi nazionali ed etnici ritenuti inaffidabili o nemici. Verrà infatti utilizzata la pratica della deportazione di massa come strumento di sovietizzazione dei nuovi territori geografici incorporati nell'impero. La ricostruzione postbellica, infine, sarà caratterizzata da una recrudescenza della repressione sociale che porterà il sistema del gulag al massimo della sua espansione quantitativa, segnando anche, però, l'inizio della crisi di un universo concentrazionario troppo ipertrofico e non più economicamente redditizio
Werth affronta un tema che ha caratterizzato da sempre gli studi di storia sovietica, e cioè il rapporto di continuità e di possibile prefigurazione tra il ciclo leninista e quello staliniano. Egli considera incomparabili i due contesti storici, l'uno caratterizzato dalla guerra e da uno scontro sociale generalizzato e l'altro dall'offensiva intenzionale anticontadina (la maggioranza della società) in un paese pacificato; ma ritiene che l'esercizio del terrore come strumento al servizio del progetto politico risulti centrale e non transitorio già dall'epoca della rivoluzione e nell'elaborazione di Lenin. Pur sottolineando gli elementi di somiglianza tra le varie fasi e i fenomeni che suggerirebbero un disegno pianificato e unico di utilizzazione del terrore, Werth individua con forza anche le forti rotture tra i diversi cicli, nonché il caos e l'improvvisazione che accompagnano la spirale repressiva; indicando anche nel gulag una fonte di contraddizioni più che l'ordinato e univoco volto "nero" dello stalinismo.
Si può adesso tornare all'introduzione, anche se ciò significa tralasciare un'analisi più precisa degli altri saggi del volume. Ma il rapporto tra questi e l'interpretazione forte e univoca suggerita da Courtois è troppo importante per non spendere qualche parola a riguardo: tenuto conto, del resto, della distanza da questa introduzione che gli stessi Werth e Margolin hanno vigorosamente preso all'apparizione del libro in Francia.
Il saggio sull'Urss, come si è visto, ha offerto una periodizzazione interna alla storia "criminale" del comunismo sovietico, mostrando i rapporti di continuità e discontinuità tra le varie fasi e sottolineando le somiglianze e diversità dell'approccio repressivo e terroristico tra le istituzioni dell'epoca di Lenin e Stalin. Courtois, al contrario, insiste per una radicale decontestualizzazione dei "crimini", indicando nel terrore criminale non già un aspetto fondamentale del comunismo da affiancare con maggiore rilevanza a quelli più volte suggeriti dalla storiografia (l'economia pianificata, il sistema monopartitico, l'ideologia statale), ma la vera e unica essenza del comunismo ovunque sia andato al potere, e non solo. Questa conclusione non è soltanto sfasata e irriducibile ai risultati delle analisi e interpretazioni presenti nell'intero volume: è un contributo forte e intenzionale a quella storiografia "monocausale" che gli studi sul comunismo hanno sempre suscitato con particolare frequenza.
È l'interpretazione di Courtois, tuttavia, più dei contributi scientifici a cui fa da prefazione, che, grazie all'amplificazione dei media, ha maggiori possibilità di diventare senso comune. Anche se è certo merito del suo fondamentalismo interpretativo il rilievo di cui il libro ha goduto e il successo che ha avuto. Una contraddizione che non giova alla conoscenza storica, ma che gli storici, e non solo loro, dovrebbero meditare con attenzione.


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2005 - Peter Maguire, Facing death in Cambodia, ed. Columbia University Press
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